Luigi Belvedere: “Trasformiamo la pandemia in opportunità”

Autore:
Francesca Santangelo
13/06/2020 - 02:50

«Mentre voi vivevate un momento di silenzio totale, perché non c’era più traffico, in ospedale la vita era anche più frenetica del solito. Io non ho percepito il silenzio che sentivate voi. Il silenzio l’ho percepito dal telefono parlando con mia sorella. Non avevo capito fino ad allora. Ho avuto conferma il giorno in cui sono stato dimesso, il 25 aprile».

A parlare è Luigi Belvedere, architetto di Caltagirone che ha avuto un’esperienza diretta col virus che l’ha portato a trascorrere 44 giorni su un letto di ospedale. Giornate lunghe, nelle quali il tempo è stato scandito dai ritmi serrati dell’ospedale che interrompono i pensieri.

«La sveglia, il monitoraggio, la colazione, la cura personale e la mattina diventa molto breve. Poi si pranza e qualche ora più vuota si ha nel pomeriggio, ma il ritmo ti accompagna e ti toglie un po’ di solitudine. Io non potendo leggere, per un problema alla vista, mi son fatto compagnia con gli audiolibri. In fondo non ti rendi neanche conto del tempo che passa, semplicemente aspetti di uscire il prima possibile da questa cosa».

Vivere in ospedale non è sicuramente facile, specie per un periodo così lungo, ancor di più quando ti ritrovi a tu per tu con una malattia nuova, ancora sconosciuta, che riserva un futuro incerto e ricco di interrogativi. Allora non resta che affidarsi alle persone che si prenderanno cura di te. La sensazione di accoglienza che ha provato Luigi Belvedere entrando in ospedale ha fatto in modo che il conforto prendesse il sopravvento sullo smarrimento e la paura.

«Ho capito che ero nelle mani di chi si prendeva cura di me al di là di chi io fossi. La maggior parte del tempo lo passi da solo, perché sei in una camera isolata, i medici entrano lo stretto necessario, in casi estremi o comunque all’inizio, i primi due giorni mi dovevano stabilizzare per evitare di intubarmi quindi ho avuto medici che, incuranti del rischio di infettarsi, sono stati accanto a me per cercare di aiutarmi a tenere la maschera di Boussignac, a fare l’emogas, insomma c’è stato un contatto fisico ed è chiaro che più stanno a contatto col malato e più la loro possibilità di infettarsi sale. Ogni accesso ad una camera è per loro un moltiplicare la possibilità di prendere il virus. Si è però instaurato una sorta di microcosmo in quel lasso di tempo, un equilibrio tra coloro che assistono ed il malato. Si creano quei rapporti gradevoli di complicità e sostegno uno con l’altro. Esempio, nel momento in cui sono stato in grado di cambiarmi le lenzuola da solo, ho evitato di mettere a rischio una persona. Questo significa che si è creato un clima gradevole tra noi pazienti e loro operatori. Ed è una cosa che ho riscontrato anche con gli altri pazienti. Anche perché alcuni sono amici. Essendo Caltagirone una città non grandissima, in molti ci conosciamo a priori, quindi ci siamo sentiti vicini e supportati. Con alcuni ci siamo ritrovati, in una sorta di amarcord dei vecchi tempi. Io personalmente ho avuto vicino anche il mio Vescovo: condividere lo stesso problema, mi ha portato ad un’intimità che non avevo pur conoscendolo da anni per lavoro. Lo vedi sempre come Vescovo, istituzione: trovarci in ospedale ha cambiato il nostro rapporto. Ecco quando parlo della positività. Qualunque cosa accada nella vita, la si deve sempre prendere nel senso più gradevole possibile, cogliere l’aspetto migliore che possa portare ad andare avanti».

Ed è proprio la fede ad averlo accompagnato lungo il percorso di guarigione: un’esperienza molto forte dal punto di vista spirituale, che ha riconfermato il suo rapporto con la fede cattolica cristiana.

«Tra gli infermieri che si sono occupati di me, uno di loro è un diacono. Mi sono ritrovato lui che è diventato il mio angelo custode, che è stato veicolo per questa alleanza personale che ho stretto nuovamente tra me e l’Onnipotente».

Non è mai semplice scoprire di avere una malattia, la parola virus può spaventare. Ma, quando ci si convive già da anni con questo termine, si è ormai abituati.

«All’inizio non ho percepito questo grande problema. Mi sono ritrovato con una malattia autoimmune che ho scoperto circa 10 anni fa, la cui conferma mi è stata data tra l’altro qualche giorno dopo essere stato ricoverato per coronavirus, oltre un grosso problema agli occhi che nessuno riesce a risolvere e che mi porta ad una carenza di autonomia strumentale di alcune cose, anche se continuo ancora a lavorare e così sarà fin quando potrò. Non mi è mai pesato lavorare. Convivendo già con un virus, che è l’herpes agli occhi, da tanto tempo, sono abituato a questo nome. Dunque non mi ha preoccupato, ho pensato che avrei ricevuto la cura necessaria e sarebbe passato. Sul momento dunque non mi sono spaventato più di tanto. Differentemente ora comincio a preoccuparmi, non vorrei aggiungere la scoperta di possibili ripercussioni nel tempo che non si palesano adesso. Ma ciò nonostante non ho un’eccessiva paura perché, essendo stato questo un evento a livello mondiale, per la prima volta vedo una sorta di convogliamento di tutte le forze possibili per risolvere la situazione. Il vaccino verrà fuori, ma non è tanto solo il vaccino che ci potrà aiutare. La vera soluzione a mio avviso sarà la cura farmacologica, che permetterà, qualora ci si ammalasse, di poter essere curati e guariti senza problemi».

Proprio l’idea di unire le forze per il bene comune spinge Luigi Belvedere a voler dare il proprio contributo attraverso una campagna di sensibilizzazione finalizzata al proseguimento dei controlli sui pazienti dimessi da coronavirus, allo scopo di studiarne meglio l’evoluzione e rendere più efficace e veloce la ricerca di una cura.

«Anche una pandemia tanto devastante può essere trasformata in qualcosa di positivo. Vorrei che passasse questo come messaggio. Così come è passato per me, che, dall’essere in una condizione di gravità che ha messo a repentaglio la mia stessa vita, anziché piangermi addosso, ne sono uscito cercando di tirare fuori il meglio da questa mia disavventura per trasformarla in qualcosa di positivo sia dal punto di vista sociale che personale e credo che possa esserlo anche dal punto di vista pubblico. Se potrò essere una delle voci che faranno coro per cercare di migliorare la situazione, io lo farò. Se parlo solo io, sarò una voce flebile nel deserto, ma, se parla un gruppo consistente, la voce sarà risonante e qualcuno dovrà pure ascoltare. Una sensibilizzazione che mi sento di portare avanti è legata alla possibilità di seguire i pazienti guariti dal coronavirus e dimessi. I medici del San Raffaele hanno adottato questo criterio la cui scelta mi sembra una soluzione imprescindibile e da replicare. Il coronavirus è una malattia da conoscere, di cui non c’è bibliografia. Loro hanno sicuramente una casistica enorme, un punto di parametro e raffronto maggiore, però io sto tentando personalmente, in tutti i modi, di sensibilizzare i primari dei vari reparti interessati, ovvero cardiologi, infettivologi, pneumologi, reumatologi insieme a radiologi, affinché anche qui da noi venga avviato il protocollo finalizzato al continuare a seguire i pazienti dimessi, il follow-up, unitamente a coloro che sono risultati positivi asintomatici al fine di capire se questo virus possa fare insorgere da qui a sei mesi delle patologie invalidanti o che riducano le funzionalità fisiche precedenti all’infezione, come la capacità respiratoria».

«Vorrei fare inoltre, come cittadino che ha vissuto in prima persona la malattia, tutto ciò che mi è possibile perché l’infrastruttura ospedaliera di Caltagirone diventi sempre più qualificata. Il fatto che avessero annullato alcuni reparti per trasformarli in Centro Covid può essere apparso come una penalizzazione se non un depotenziamento dello stesso nosocomio, in realtà questo può trasformarsi in una opportunità di miglioramento dell’offerta ospedaliera. Io dico semplicemente che è possibile far convivere entrambe le cose se strutturato bene, ovvero, se regolato dalle opportune organizzazioni logistiche atte ad evitare la diffusione delle infezioni all’interno dell’ospedale, questo diventa un guadagno. È indubbio che un Centro Covid necessita della stretta convivenza con équipe multidisciplinari. Tale stretta correlazione, in vista delle misure sanitarie e delle somme loro destinate per meglio affrontare in seguito la pandemia, potrà trasformarsi in guadagno qualitativo di queste strutture fatto di attrezzature e materiale umano. Inoltre, ad esempio, mettere insieme medici e ricercatori del San Raffaele di Milano con i medici dell’Ospedale di Caltagirone, affinché questi ultimi possano avvalersi del protocollo di follow-up per i pazienti guariti e già avviato per quelli lombardi, può essere sicuramente importante. Un focolaio lombardo ed uno catanese possono diventare un raffronto importante».

Luigi Belvedere porta avanti questi progetti, man mano che si riappropria della sua vita. Il ritorno a casa non è proprio un ritorno alla vecchia vita. La quotidianità è comunque diversa, fatta di attenzioni, rinunce, soluzioni alternative.

«Non sono ancora tornato in casa perché deve essere sanificata. Inoltre, per una tutela dei miei cari, sono andato a stare in un appartamento isolato che mi permette di vivere in maniera autonoma, ma supportato per il cibo o per un saluto. La cosa che più mi è dispiaciuta è stata rientrare e non poter abbracciare i miei cari, mia madre e mia sorella. Un momento emozionante è stato ascoltare la mia gatta piangere. Tra l’altro esci sì guarito, ma non stai benissimo, il tuo corpo deve ancora riprendersi. Sono tornato a lavoro dopo quasi un mese. Non bacio ancora mia madre, per tutelarla. Anche perché inizio ad uscire fuori e non so se sono protetto o mi posso reinfettare di nuovo. Dovendo stare a contatto con altri, continuiamo a mantenere tutte le norme di sicurezza: dal togliersi le scarpe al disinfettarsi le mani, la sanificazione del telefono e tutto ciò che ormai è routine. Accorgimenti che ci salveranno la vita nel caso in cui il virus non andrà via subito. Insomma, un ritorno un po’ traumatico, così come quando te ne vai in maniera improvvisa, ma sicuramente un rientro tanto desiderato».

 

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