Etna, conclusa la spedizione per studiare lo scivolamento del vulcano nel Mediterraneo
È rientrata nel porto di Catania la nave oceanografica con a bordo un team internazionale di ricercatori che ha raccolto dati importanti per comprendere meglio le cause e l’entità dei movimenti sottomarini dell’Etna.
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Dopo 13 giorni di navigazione al largo delle coste di Catania, si è conclusa la spedizione Meteor M198 organizzata dal Centro di Ricerca Oceanografica GEOMAR di Kiel (Germania).
Alla crociera scientifica, il cui scopo principale è stato indagare le porzioni sommerse del fianco sud-orientale dell’Etna in costante movimento sotto le acque del Mediterraneo, ha partecipato anche l’Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia (INGV).
La spedizione ha coinvolto un team di ricerca internazionale che tenta di comprendere se il fianco sud-orientale del vulcano stia scivolando verso lo Ionio come blocco unico o in più porzioni e quali siano le origini di questa dinamica.
«L’obiettivo più ambizioso della nostra spedizione è stato evidenziare come le osservazioni e le misurazioni subacquee siano fondamentali per comprendere meglio strutture come l’Etna e fenomeni complessi come lo scivolamento in mare del fianco di un vulcano, sia esso costiero come l’Etna o insulare. In questo contesto, affiancare i dataset provenienti dal mare a quelli elaborati a terra attraverso rilievi strutturali, GNSS e satellitari consente di avere a disposizione un vero e proprio osservatorio a 360° sul vulcano», prosegue Bonforte.
Per ottenere i dati necessari, i ricercatori a bordo della nave Meteor hanno adottato un approccio multidisciplinare. Oltre alla raccolta di campioni di roccia e di sedimenti e alla mappatura del fondale marino effettuata grazie a sonar multibeam e a sofisticati droni subacquei, tecniche geodetiche hanno consentito di sfruttare una rete di sensori acustici già installati sui fondali al largo di Catania nel 2016 per calcolare, sulla base dei tempi di propagazione delle onde sonore, i relativi movimenti di scivolamento tra i vari punti della rete.
Tali misure hanno già consentito di rilevare la deformazione attiva sulla prosecuzione della nota faglia di Acitrezza, almeno fino a 1.200 metri di profondità.
Inoltre, la missione è stata l’occasione per sperimentare una tecnica finora mai applicata ai vulcani che ha previsto l’installazione di due piezometri per misurare le variazioni di pressione e di temperatura dell’acqua contenuta nei primi 5 metri di sedimento sul fondo del mare in prossimità della faglia.
L’obiettivo, in questo caso, è provare a capire se, come già evidenziato nel caso di alcuni terremoti, un movimento del fianco del vulcano sia accompagnato o possa essere anticipato da cambiamenti nelle caratteristiche dei fluidi presenti al suo interno.
«Il paradigma che stiamo adottando è quello di “rimuovere l’acqua”, almeno come limite mentale. La linea di costa che delimita tutte le mappe non è infatti un limite geologico o geodinamico, ma solo un limite alle nostre capacità osservative. L’Etna è tra i vulcani meglio studiati al mondo, un laboratorio a cielo aperto, e ciò ha consentito un enorme avanzamento della conoscenza dei fenomeni geologici che la caratterizzano; questo rende ancora più evidente la lacuna di conoscenza sul fianco della montagna che prosegue al di sotto del livello del mare», aggiunge Alessandro Bonforte.
«Ogni campagna oceanografica aggiunge un tassello all’enorme spettro di osservazioni che si possono e si devono condurre sui fondali prospicienti al vulcano e pone nuovi quesiti a cui si cercherà di dare risposta con le campagne successive. È l’essenza del nostro lavoro di ricercatori e del progresso della conoscenza, uno stimolante percorso pieno di interrogativi da sciogliere», conclude Alessandro Bonforte.
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