Storie di felicità negata. Due novelle di Verga e Pirandello

Autore:
Mario Guarnera
26/11/2022 - 01:43

Il bisogno della felicità, o meglio ancora l’insopprimibile speranza che questa felicità venga raggiunta, sembra essere una necessità insostituibile. La felicità è stato uno dei più importanti temi trasversali della filosofia, da Socrate in poi, nella ricerca di un bene stabile in opposizione alle cose materiali, e lo stesso dicasi per la visione cristiana dell’esistenza, come promessa di un bene eterno. Eppure tale appagamento non di rado è stato frustrato, umiliato, deriso. Questa negazione della felicità ha trovato voce anche e soprattutto in letteratura nella creazione di personaggi offesi dagli eventi. Per ricordare un esempio molto noto, il danese Hans Christian Andersen pubblicò nel 1848 la fiaba che scandiva la lenta agonia delle ultime ore di vita di una piccola fiammiferaia, e ogni fiammifero acceso alimentava minuti di sopravvivenza al gelo facendo altresì scaturire nella sua mente immagini di una vita migliore, purtroppo in modo invano.

Guardando alla Sicilia tra fine Ottocento e inizi Novecento, le tristi condizioni dell’Isola, la povertà e l’analfabetismo presenti malgrado l’unificazione dell’Italia, offrivano continua ispirazione al tema della felicità tradita e forse irraggiungibile. Giovanni Verga avrebbe definito “Vinti” i perdenti in partenza, capaci di sopravvivere mantenendosi in una condizione di perenne stasi, aiutandosi e confortandosi a vicenda (l’ideale dell’ostrica che Verga tratta nella novella Fantasticheria e nel romanzo I Malavoglia) pena l’annientamento nel tentativo, incosciente, perché vano, di cambiare alla ricerca di una vita migliore. Luigi Pirandello andrà molto più in avanti, definendo questa corazza quasi una necessità sociale, la “maschera” che permette di conservare integro il proprio posto senza perdersi nel nulla (come accade al protagonista del suo romanzo Il fu Mattia Pascal).

In entrambi gli scrittori siciliani, i personaggi che subiscono questo destino sono deboli, forse i più deboli in assoluto. Tra le tante pagine scritte in proposito, questi individui fragili che non trovano rispetto e difesa sono i protagonisti delle due novelle Nedda (1874) di Verga e Servitù (1914, contenuta nella raccolta Candelora) di Pirandello, incentrate su minute figure femminili che per un breve lasso di tempo trovano sollievo nel miraggio di un cambiamento, ma in ambedue i casi tale miraggio svanirà ben presto.

Entrando nel particolare dell’analisi, Nedda è una raccoglitrice di olive, tanto povera da essere sfiorita già appena trascorsa l’adolescenza:

«Era una ragazza bruna, vestita miseramente, dall’attitudine timida e ruvida che danno la miseria e l’isolamento. Forse sarebbe stata bella, se gli stenti e le fatiche non avessero alterato profondamente non solo le sembianze gentili della donna, ma direi anche la forma umana».

Nedda troverà la svolta nell’amore per il contadino Jano e nella precoce maternità, ma funeste disgrazie si abbatteranno su di lei (l’incidente mortale di Jano debilitato per la malaria, e poi la morte della figlioletta troppo gracile per sopravvivere a lungo), così da farla ritornare completamente sola, amareggiata al punto da giustificare la scomparsa della propria creatura come un provvidenziale sollievo per il male che altrimenti l’avrebbe inevitabilmente colpita nel corso della vita:

«Nedda la scosse, se la strinse al seno con impeto selvaggio, tentò di scaldarla coll’alito e coi baci, e quando s’accorse ch’era proprio morta, la depose sul letto dove avea dormito sua madre, e le s’inginocchiò davanti, cogli occhi asciutti e spalancati fuor di misura. – Oh! benedette voi che siete morte! - esclamò. – Oh! benedetta voi, Vergine Santa! che mi avete tolto la mia creatura per non farla soffrire come me!».

Nenè è la protagonista della novella di Pirandello, Servitù: è la figlia della domestica di una famiglia facoltosa, a sua volta con una figlia, Dolly, ovviamente viziata tra lussi e costosi giocattoli. Trovandosi ammalata, la piccola Dolly regala la “marchesina Mimì”, una delle sue sette bambole, a Nenè, che finalmente può sognare di vivere diversamente, ma, e in ciò sta la novità di Pirandello, Nenè vuole essere la serva della bambola, prepararle bagno e colazione, cambiarle i vestiti e immaginare di portarla a galoppare, mantenendosi quindi in una condizione subalterna e anzi struggendosi di non essere all’altezza del lusso a cui era abituata la bambola:

«Certo, per sé, la marchesina Mimì, aveva gli occhi di vetro e non vedeva. Ma vedeva lei, Nené, ora, la miseria brutta di quel suo bugigattolo con gli occhi della marchesina Mimì abituati al lusso della cameretta da cui veniva».

Ma la realtà, in Pirandello come in Verga, irrompe d’improvviso con la propria brutale violenza, e il padre di Nenè, ubriaco, si infuria per questa assurda novità in casa propria e spezza la testa alla bambola:

«Con l’anima oppressa d’angoscia, gli vide levare l’altra mano, afferrare con due dita la falda del cappellino alla bambola, dare uno strappo violento. Soffocò un gemito involontario. Insieme col cappellino se n’era venuta la testa. E quella testa col cappellino e il busto decapitato, due strazii orribili, informi, volarono via per la finestra presso il tetto, accompagnati da un calcio e da una esclamazione rabbiosa: - Su, in piedi! Non voglio signore, io, per casa!».

Se dunque appare chiaro come la novella di Verga si inserisca in quella corrente verista priva di ottimistiche utopie in opposizione alle “magnifiche sorti e progressive” su cui ironizzava Giacomo Leopardi nel noto verso de La ginestra, meno lineare risulta la riflessione sul comportamento della piccola Nenè che viene accusata dal padre violento di fare lasignoragiocando con una bambola di lusso, ma in realtà la piccola giocava a fare laservadella bambola, anzi lo era diventata letteralmente, come dimostra il dialogo immaginario a due voci tra l’altezzosa bambola Mimì e l’obbediente Nenè:

«Vedeva, con gli occhi sbarrati, quel suo sogno là in quell’angolo incantato, Nenè, e parlava sola così da un pezzo, forte e imperiosa per conto della marchesina Mimì, umile e inchinevole per sé, da servetta amorosa che compatisce i capricci della padroncina tiranna».

Una condizione di interiorizzazione dello stato di subordinazione e di sostituzione della felicità autentica con una finzione, un giocare alla felicità che rimane tale, senza una concretezza reale. Un surrogato che potrebbe anche perdurare se un evento traumatico non lo infrangesse. La Nedda di Verga vede scomparire uno dopo l’altro le sue autentiche possibilità di rivalsa, perché una sorta di crudele legge del destino sembra decretare che povera nacque e povera morirà. La Nenè di Pirandello, invece, avrebbe potuto accontentarsi di essere felice con la bambola di lusso che le era stata donata, accettare perciò una interpretazione non autentica anzi distorta della felicità, uno pietoso mezzo per illudersi di essere finalmente felici. Il violento gesto iconoclastico del padre pare decretare che la figlia non avesse neppure il diritto di sognare. Un vero dramma nel dramma, la distruzione dell’illusione salvifica. Posizione molto radicale quella di Pirandello, che pare anticipare di decenni molte analisi che sociologi e filosofi svilupperanno dalla seconda metà del Novecento contro la società del falso benessere. Ma Pirandello e Verga guardano alla tragedia dell’uomo più che alla costruzione di teorie critiche della società, ed è per questo che le loro opere costituiscono un universo di personaggi che soffrono perché tentano di ribellarsi, invano, alla mancanza di una piena e duratura felicità.

 

In copertina: Immagine tratta dal film La terra trema (1948) di Luchino Visconti

 

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